Non è un capriccio e nemmeno una moda. La biodiversità è la vita che dobbiamo a tutti i costi impegnarci a difendere. A partire dall’agricoltura.
La bellezza delle nostre rive inerbite, in una stagione in cui il glifosato viene usato a profusione per eliminare ogni germoglio di vita e soffocare la biodiversità, è rivoluzionaria. Basterebbe anche solo la meraviglia dei fiori e del sorriso dei nostri figli che giocano nell’erba per convincerci che questa è la strada giusta, ma c’è di più.
C’è il ronzio delle api che trovano cibo in una campagna appiattita.
Ci sono le tracce dei tassi che cercano insetti tra le erbe, i serpenti appostati a caccia di rane.
C’è il nostro progetto che va oltre il biologico per riportare armonia tra natura e agricoltura. E c’è la risposta che la natura fornisce a questo modo gentile di relazionarci con lei: una risposta che è un sorriso pieno di colori e di energia.
Eppure molti colleghi (e molti consumatori) ancora non lo comprendono.
Eppure nelle campagne intorno a noi i diserbanti fanno piazza pulita di qualsiasi erba che non sia riso. Il già citato glifosato, infatti – l’erbicida “secca tutto” elaborato dalla Monsanto come defoliante per la guerra in Vietnam e successivamente trasformato in diserbante totale per l’agricoltura – aldilà delle rassicurazioni fornite dal produttore, è una sostanza ad elevata tossicità ambientale in grado di alterare gli ecosistemi con cui entra in contatto.
Il suo utilizzo compromette la stabilità dei terreni (che vengono completamente denudati), cancella gli habitat, riduce drasticamente la biodiversità e aggrava in modo determinante il fenomeno del dissesto idrogeologico.
Senza biodiversità non c’è futuro. Per davvero.
Anche a causa di questi comportamenti, negli ultimi 25 anni le popolazioni degli animali selvatici si sono dimezzate.
L’agricoltura convenzionale è responsabile delle sorti del 70% della perdita di biodiversità terrestre, ed ha innescato un sistema di produzione alimentare globale basato su un numero limitato di specie animali e di varietà vegetali, geneticamente uniformi e altamente produttive, che costituisce una criticità sia per la conservazione della biodiversità che per la salute umana.
“In estrema sintesi, possiamo riassumere i possibili effetti negativi della moderna coltivazione del riso come segue. I campi grandi e spesso asciutti creano un paesaggio monotono e arido, peggiorando la qualità estetica del paesaggio risicolo tradizionale. L’assenza di siepi, alberi e canali tra i campi coltivati sottrae spazi naturali e habitat a piante (fiori, arbusti, alberi). Insetti (farfalle, api), anfibi (rane, raganelle), pesci, uccelli (inclusi gli uccelli migratori) e piccoli mammiferi (lepri, porcospini). L’uso di fertilizzanti e sostanze chimiche inquina l’acqua e il suolo con effetti negativi su piante e animali selvatici” (Bogliani, 2010).
Una questione di responsabilità
Come coltivatori biologici, alla luce di quanto detto sino ad ora, sentiamo la responsabilità di invertire la rotta e di restaurare sistemi agro-alimentari basati sulla sostenibilità. Non, però, quella delle grandi aziende intenzionate solo a spolverare di verde la propria immagine e la propria coscienza.
Quella che interessa a noi è la sostenibilità VERA. Verde anche nella parte più intima del proprio essere. Profondamente in connessione con la natura. Impossibile? Forse no.
Non tutto è perduto (forse)
Il pericolosissimo trend in atto può ancora essere fermato. Ad esempio, per migliorare la recettività faunistica ma anche floristica delle risaie basterebbe permettere la crescita di vegetazione spontanea lungo le sponde per tutta la stagione vegetativa.
La sommersione di una parte delle stoppie del riso fino a fine inverno, inoltre, creerebbe un ambiente capace di ospitare gli uccelli migratori.
Infine, poiché l’uso delle livellatrici laser e la pratica delle asciutte sembrano essere indispensabili nella risicoltura moderna, per la sopravvivenza degli organismi acquatici durante i periodi di asciutta una soluzione potrebbe consistere nella formazione di riserve d’acqua in forma di canali, disposti sul campo nel modo più opportuno per non intralciare i movimenti dei mezzi agricoli. Durante le asciutte i pesci, i girini, le larve degli insetti e gli altri invertebrati acquatici potrebbero trovare rifugio qui per poi tornare, successivamente alla nuova sommersione, ad occupare l’intera superficie della risaia, fungendo da antagonisti alle zanzare.
Se vogliamo invertire la rotta, dobbiamo farlo partendo da qui. Adesso.
Conclusioni
“Un giorno guarderemo indietro a questa era buia dell’agricoltura e scuoteremo la testa. Come abbiamo mai potuto credere che fosse una buona idea coltivare il nostro cibo con veleni?”.
Questa frase è stata pronunciata da Jane Goodal, etologa e antropologa, nota in tutto il mondo per i suoi studi sugli scimpanzé e per il suo impegno a favore dell’ambiente.
Nelle sue parole c’è tutta la vergogna che dovremmo provare pensando che tra decine di anni, se davvero non inizieremo a lavorare diversamente, i nostri figli e nipoti giudicheranno questi comportamenti irresponsabili. Con lo stesso sdegno con cui noi adesso pensiamo, ad esempio, al colonialismo.
Le generazioni future ci chiederanno perché siamo rimasti a guardare, perché non abbiamo rinunciato alle nostre abitudini, convenzioni e comodità per cambiare le cose.
Ognuno di noi può, con le proprie scelte e il proprio stile di vita, indirizzare le politiche dei soggetti protagonisti del mercato e dei produttori e far così germogliare il seme del cambiamento.